V per…

Dopo una meravigliosa (e potenzialmente letale) cotoletta fritta nel burro io e mia cugina eravamo spiaggiate sul divano a guardare quella serie dove un sacco di persone sono sparite e non si sa perché. Mentre guardiamo la tv il telefono della cu continua a mandare suoni: uno, due, tre… mia cugina guarda il cellulare ed esclama “oh ma  mollami!”. Vien fuori che a scriverle é un suo amico che, saputo che lei stava con me, ha cominciato a chiederle “e come sta tua cugina?”, “me la saluti?” e, in ultimo, “me la presenti?”. Mia cugina risponde dicendogli che sì, certo che te la presento e dopo qualche minuto questo scrive, preoccupato: “basta che non sia come l’altra tua amica che mi hai presentato”. A quanto pare quest’amica non aveva abbastanza verve per colpirlo favorevolmente (quanto a me mi dicono che io l’ho anche incontrato quest’essere mandato dal cielo ma io non riesco a ricordarlo assolutamente, nonostante la minuziosa descrizione fisica che me ne é stata data).

Caro amico della cugina, io spero per te che non ci “presenteranno” mai perché con quest’ultima uscita ti sei guadagnato un giro gratis nel tunnell dell’orrore, dove potrai beneficiare di tutta la verve che svariate generazioni di femminismo hanno rovesciato nella mia tascabile figura. 

Dare e avere. Perché Aristotele aveva ragione a perderci tempo.

Non so se posso io annoverarmi tra i buoni ma so di sicuro che è lì che ti colloco. Così come sono certa di volere il tuo bene sempre e di ritenerti (a ragione, RAGIONISSIMA, e nessuno potrà mai convincermi del contrario, nemmeno tu) una delle persone migliori non solo della mia vita ma della vita di chiunque: so che sei rispettoso dei sentimenti altrui, che quando sei in te lo sei anche dei tuoi, so che condividi la mia paura e alcune delle mie certezze, che sei capace di vedere il bello dove non lo vede nessuno e il brutto quando è venuto il momento di prenderti i tuoi 20 minuti (o 20 giorni) di cinismo e di “odio tutti”.

SO che

-la cosa che mi piacerebbe di più fare è cantare con te, così come so che non lo faremo mai anche se abbiamo entrambi trascorsi (e presente, nel tuo caso) in questo senso perché ci si vergogna. Entrambi.

-un giorno sono entrata in un ospedale e ti ho trovato lì e ho scoperto che a non tutti i romani il mio senso dell’umorismo sembrava acidità: ridevi, ridi, con gli occhi socchiusi. Ti faccio ancora ridere, tu fai ridere ancora me.

-mi guardi in faccia e mi chiedi cos’ho fatto e non ho nemmeno un’ombra di imbarazzo nel dirti che ho pianto per due ore. Non sento alcun giudizio, tu sai chi sono. Sai che sono una roccia e sai che sono una tenerella del cazzo. So che riderai davanti a questo “del cazzo”.

-anche se ci vediamo a piccole dosi sei sempre nei pensieri, che se ti dico “ti penso” tu mi capisci, che la tua risposta “anche io” è esattamente corrispondente a quello che so.

-hai rispetto per la mia vita senza compatirmi e sei in grado di rintracciarci quello che sono oggi, così come so che il nostro modo di parlare di quello che gravita intorno al lavoro ci permette di spiegarci senza  subordinate.

-non smetterò mai di averti presente nella testa e nel cuore: come pietra di paragone, come consigliere costante, come prova del fatto che a lanciarmi nel mondo faccio bene perché esistono le persone come te, persone come te che possono voler bene a una come me. Ne esistono anche altre, per le quali non resta che provare pietà perché non sanno essere generose, non sanno mostrare curiosità per il prossimo loro ma lo vedono solo come un riflesso di sé. E tu puoi dire quello che vuoi sulla tua insofferenza ma non sarai mai così povero.

-la tenerezza è sempre lì sopra le nostre teste e non è mai melensa. Quando io sono con te e tu sei con me IO sono con TE e TU con ME, e non ce n’è.

-che se non ci fossi, se non ti avessi incontrato, camperei sicuramente bene. Ma non avrei la fortuna che ho.

-che lo sai che sto parlando di te.

 

Per mettere insieme i pezzi

Ci eravamo appena trasferite e io avevo deciso di provare il forno facendo un dolce. Il forno in questione è un vecchio forno a gas che non dispone di alcuna manopola della temperatura (un terno al lotto quindi) e quindi avevo optato per una torta rigirata che non sarebbe cresciuta molto a causa di 1)la presenza di poco lievito nella ricetta e 2)grossi tocchi di kiwi nell’impasto. Insomma, l’importante era che fosse cotta, non che fosse soffice.

Guardo l’orologio, inforno…e poi mi viene in mente che nella nuova casa non c’è nemmeno uno stuzzicadenti per controllare la cottura della torta, così mi consulto velocemente con la coinquilina mora, annuncio “vado a chiedere uno stuzzicadenti ai vicini!”, apro la porta e suono.

Mi apre un bel ragazzo moro in mutande/costume che si sta infilando una maglietta: senza fare una piega (mentre io mi limito a pensare “oh toh.”) mi invita a entrare mentre io cerco di spiegare che mi serve uno stuzzicadenti perché sto facendo un dolce perché il forno ha questo problema e insomma non volevo disturbare. Mi viene dato un buon quantitativo di stuzzicadenti. Torno a casa. Sforno la torta. Porto fette di torta nella casa del vicino che scopro essere uno di tre.

Comincia così la storia del Buon Vicinato, del gruppo su whatsapp, dei pomeriggi passati a leggere insieme e a discutere di rifugiati, d’amore, di sesso e di come si dovrebbe vivere, delle cene a portar e via dei momenti di “decompressione” di cui tutti sentiamo il bisogno, motivo per cui ci autoinvitiamo gli uni a casa delle altre dopo una lunga giornata di lavoro.

Ultimamente il Buon Vicinato è il luogo che mi permette di ricompattarmi dopo l’ennesimo viaggio in treno dal quale tendenzialmente torno che non so più dove sono, chi sono e cosa faccio. Il Buon Vicinato è il tavolo rotondo dove io riesco a sentirmi pienamente a Roma, gentilmente accettata, è il divano scomodo da cambiare quanto prima sul quale ci si siede a sentire I DISCHI (dischi dischi, non cd), è la dispensa dei siciliani che ti offrono sempre da mangiare, è la cucina in cui ho preparato i biscotti di Natale e nella quale vado a cuocere tutti i ciambelloni del mondo. E’ casa, non in casa, e non so come farei senza.

Colline, gallerie, collere, galline, tu-tum tu-tum, tu-tum tu-tum…

In treno (in tanto treno, intanto) passo tra le verdure laziali e toscane: le prime le riconosci perché sono familiari e piene di pecore, le seconde sono inconfondibili con tutti i loro alberi pizzuti. Che poi a me gli alberi pizzuti sono sempre piaciuti, ho imparato solo a Roma che i cipressi sono tipici dei cimiteri. Tra una collina verde e l’altra appaiono puntolini di case, rimesse, casolari, qualche hangar, magazzini e industrie. Provo, a ogni nuovo agglomerato urbano e umano, a immaginare che vita ci si faccia lì: dura un millisecondo, il tempo perché la Freccia si sposti più avanti, nemmeno un respiro dura così poco e quello che ne viene fuori é un abbozzo di un abbozzo di un abbozzo di un ritratto. Ne vien fuori il riccioletto di grafite della matita temperata, quindi figuriamoci quant’è lontano, quello che ne esce, dal disegno completo.

Ma tanto non é uguale ovunque? Non facciamo tutti le stesse cose? Stupisce (e se mi ci concentro il pensiero é in grado di mandarmi ai matti) solo me che alla fin fine tutti noi si campi allo stesso modo, non importa dove e nemmeno quando?

Condivido, ergo sum

Dopo anni di utilizzo più o meno altalenante sono arrivata a una conclusione: non so usare Facebook, o meglio, lo so fare fin troppo bene e non riesco a farne un uso…sobrio.

Facebook stimola il mio narcisismo e il mio esibizionismo in un modo molto simile a quello delle bambine che si alzano la gonna: non perché ci sia nulla di allusivo in quello che posto ma perché fondamentalmente è tutto un “guarda cosa faccio” e “guarda cos’ho” e il peggiore (e per me PERICOLOSISSIMO) “guarda cosa penso”. La facoltà di pensiero è la parte più erotizzata della mia persona, vale a dire quella su cui ho speso più tempo, più cura per crescermela e di cui sono fiera fino alla strafottenza.

Altro fattore: sono figlia delle chat. Vuoi perché da brava nerd giocavo di ruolo, vuoi perché sono diventata adolescente nel momento in cui c’è stato il boom, sono brava a dire le cose per iscritto, potrei andare avanti per ORE. Ore piuttosto confortevoli visto che 1)così occupi il tempo libero, 2)hai modo di rispondere sempre la cosa migliore e 3)niente ti prende di sorpresa ed è tutto molto SICURO. Whatsapp da questo punto di vista è una manna dal cielo, posso comunicare senza spendere l’ira di dio nel modo che mi è più congeniale. Già che parlavamo di erotizzazione tiriamoci dentro anche quella che riguarda la scrittura (e del resto può la figlia di una giornalista venir fuori diversamente?).

Quest’anno sono andata a vivere con una semi-fricchettona, che parla di energie e altre stranezze, che mi ha propinato uno sciroppo propoloso terribile quest’inverno (“apri la bocca! Buono eh? Perché fai quella faccia?”), che aggiusta qualsiasi cosa si rompa in questa casa e che…ha amici UN SACCO più rilassati dei miei. Come dire, fatti una domanda… Io non sono ancora arrivata a credere che saltare su un piede sotto la luna piena faccia passare il mal di denti, però da lei ho imparato una serie di cose importanti: la prima è che non puoi e non VUOI controllare tutto, la seconda è che se ti bendisponi nei confronti del prossimo (ma se lo fai sul serio e non perché vuoi qualcosa, qualsiasi cosa, in cambio) l’atmosfera cambia. Non tenere il muso. Non meditare vendetta. Non c’è motivo di non trovare un equilibrio con le persone che sai non essere dannose. Cercare di conoscere il prossimo non ha niente a che vedere con la possibilità di sapere tutti i fatti suoi e dov’è oggi e dove sarà domani. E’ così che poi vinci una bicicletta.

 

A volte ritornano

Sto leggendo tanto. Quanto ero solita fare da piccola. Tanto per dirne una, Cent’anni di solitudine l’ho finito in una notte, con tanto di urla con l’augusta genitrice (“SPEGNI LA LUCE!” “NO!”). QUEL tipo di TANTO.

A nove, forse dieci anni mio padre mi portò in biblioteca: per lui, che era figlio orfano di un “oprario” quel luogo era simbolo del suo riscatto sociale, del suo desiderio di sapere tutto di tutto senza avere le risorse per comprarsi i chili di libri che poi sarebbe riuscito a collezionare nella sua vita da adulto. Ricordo l’odore (non vedo l’ora di tornarci per vedere se è ancora lì, anche perché adesso non saprei descriverlo anche se ce l’ho sulla punta della lingua…o del naso, o della corteccia prefrontale) e la tessera, di carta, con una scritta piena di inchiostro che credo fosse quello di un timbro.

A quel tempo (il tempo in cui leggevo tantissimo) avevo già la mia libreria personale ma mio padre sembrava dare a quel rito una tale importanza e io ero così desiderosa di somigliargli e di fargli capire che tutto quello che faceva e mi regalava era fighissimissimissimo che mi disposi docilmente a giocare a questo gioco della biblioteca. Presi in prestito cinque o sei libri, e poi…mi dimenticai semplicemente di avere la tessera (ma non di restituire i libri eh).

Quest’anno sono stata accompagnata un’altra volta in biblioteca da un altro uomo cui volevo bene. Quest’uomo usava (e forse continua a usare) i libri come ansiolitici: nel tentativo di trovare un senso e una bellezza che in sé non riusciva a vedere (io sì, ma sorvoliamo) passava le ore sui classici così come sui saggi. Sono stata accompagnata in biblioteca, ma ho cominciato ad andarci sul serio solo DOPO. Solo dopo essermi fatta spezzare il cuore ben bene, come solo gli “amici” sanno fare.

All’inizio ci sono tornata per la questione del PIM, il Prestito InterBibliotecario Metropolitano, che è questa cosa fighissima per cui se la biblioteca non ha il libro che ti interessa ma ce l’ha un’altra biblioteca del territorio se lo fanno arrivare. A voi magari sembra una cagata ma oh, per me equivale a trovare una lettera nella casella della posta, tipo quella che ogni tanto favoleggio di mandare all’amico di cui sopra quando lascerò questa città (il senso del “favoleggiare” sta nel fatto che non lo farò, ma fa niente). Mi piace la posta per posta mentre le mail mi fanno venire l’orticaria a prescindere da chi le manda. Il PIM è figo, quindi ho ordinato un paio di libri random (anche piuttosto bruttini) per approfittarne.

In una di queste occasioni in biblioteca ci ho pure incontrato il tipo di cui sopra ma non è questo il punto.

POI

Una sera stavo guardando la mia libreria, cercando di ricordare quanti scatoloni c’erano voluti al primo trasloco visto che il secondo è dietro l’angolo e mentre mi maledicevo per una serie di cose (tipo: 1) troppo poco tempo tra un trasloco e l’altro; 2)quanti libri ho comprato nella vita; 3)il fatto di non poter disporre di persone di servizio che facciano scatoloni al mio posto) all’improvviso l’illuminazione: ECCO a cosa serve una biblioteca a una ragionevolmente benestante fanciulla come me. Fine del consumismo, fine del 21esimo secolo con le sue storture: ero stata così brava a impararlo per  film e musica e persone MA mi ostinavo ancora a voler possedere trilioni di libri  (non mi parlate di kindle: ci ho provato, non mi piace, non gli piaccio, ci stiamo reciprocamente sulle palle).

Sono tornata in biblioteca ma stavolta con una LISTA (scritta a mano) e ho cominciato a spuntarne i titoli. Tanto per dirne una al momento sono alle prese con Guerra e pace e in una settimana ho superato la metà (e l’ho fatto lavorando, mangiando, dormendo e mantenendo una vita sociale).

Insomma, questo per dire che nonostante la biblioteca del quartiere sia legata a qualcuno per il quale ho provato un grandissimo affetto e indissolubilmente connessa a mio padre (che sogghigna sotto i baffi, probabilmente) la molla principale è stata quella bestiolina che è sempre stata così arzilla in me e che pensavo si fosse arrugginita o fosse spirata nel tentativo di rianimare quelle altrui: così come sono affezionata alle stilografiche e ai calamai, ai miei pezzi di ceralacca, alle mie carte da lettera raccolte per il mondo allo stesso modo mi coccolo ancora, nonostante la fatica che questo richiede, la mia ideologia. Come la nerd dinosaurica e vintage che sono.

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Fiabe e leggende.

Esiste un animale ancora più sfuggente del calamaro gigante, una bestia mitologica di cui tutti parlano e che nessuno ha mai visto: i mitomani raccontano di esserlo o esserlo stati in alcuni periodi piuttosto difficili della loro vita, quelli più sinceri di noi ne vantano le qualità invidiandole anche se non ne hanno mai visto uno e non avendo quindi la prova dell’esistenza di questo animale leggendario.

Questa chimera, questo misterioso essere del nostro tempo (si dice che una volta ce ne fossero molti di più) è L’UMANO CHE NON SI PREOCCUPA.

“Stai tranquilla.” (Tranquillo è morto)

“Preoccuparsi non serve a niente.” (Bugia. Intanto serve a preoccuparsi)

“Se c’è una soluzione perché preoccuparsi? Se non c’è una soluzione perché preoccuparsi?” (Le paraculate aristoteliche non mancano mai)

Io lo devo ancora incontrare, quello o quella che non si preoccupa. E se state pensando “beh, io per esempio non mi preoccupo” rilassatevi, nessuno vi sta guardando.

Poi insomma, preoccuparsi NON E’ una cosa sbagliata. Per esempio se non fossimo capaci di preoccuparci non faremmo la raccolta differenziata, non avremmo imparato a depositare i nostri bravi cataboliti nel water (e li lanceremmo ancora dalla finestra: alzi la mano chi vorrebbe più passeggiare tra i pittoreschi vicoli di trastevere, a quel punto), non saremmo seduti sul bordo del divano durante una partita di calcio. O durante un spoglio elettorale. Quindi vedete che preoccuparsi è necessario e a tratti è anche divertente.

Casomai potremmo dire che esistono due momenti diversi nella vita delle persone: quello in cui ci preoccupiamo “il giusto” e quello in cui ci preoccupiamo “alla enne”, in cui cioè il livello di ansia va OLTRE una certa soglia e i vari sistemi di controllo cominciano a fare rumori penetranti tipo

BLAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH

Esempio di conversazione:

Amico X: “Se c’è una soluzione perch….”

Io: “BLAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH”

Amico X: “Preoccuparsi non ser…”

Io: “BLAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH”

Amico X: “Stai tr…”

Io: “BLAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAHAAAAAAAAAAAAAAAAHAAAAAAAA! BLAH! BLAAAAAAAAAAAAAAAAH!”

Le soluzioni che ho trovato al momento sono:

1)CANTARE A SQUARCIAGOLA. E’ tipo dire BLAAAAAAAAAAAAAAAH però con le parole: in questo modo nessuno chiama la neuro, anche se le coinquiline comunque si spaventano.

2)FARSI FARE LE COCCOLE da qualcuno che non ha secondi fini. Tipo l’amico gay.

3)POSSEDERE UN GATTO GRASSO E ANZIANO che ha passato la fase del “ti butto giù tutti i soprammobili”

4)TETRAIDROCANNABINOLO

5) LEGGERE TOMI DI LETTERATURA RUSSA CON PASSAGGI IN FRANCESE E NOTE A PIE’ DI PAGINA.

Qui c’è crisi: avete suggerimenti?

 

 

Declinazioni di fifa

Mancano 4 mesi e ho paura di:

…dover tornare indietro con le pive nel sacco (tornare a cosa poi? Ecco, appunto)

…perdere occasioni perché non ho il tempo di coglierle (in un film non andrebbe così ma questo non è un film e nella vita reale ci permettiamo un sacco di perdite di tempo)

…fare la fine della Gwyneth Paltrow con i capelli corti quando comunque quella con i capelli lunghi ha una vita di merda

…dover stipare le mie cose in un coso e tornare a vivere con mia madre (scusa mamma)

…sentirmi dire a Milano “tu non sei di Milano, vero?” dopo 17 anni in cui mi hanno chiesto la stessa cosa ma in un’altra città

…perdere tutte quelle persone cui voglio bene e che soprattutto (lamentatio è e lamentatio resta) MI vogliono bene

…scoprire che i milanesi sono freddi e distanti (no, non è un’ovvietà)

…vivere in una casa che mi piaccia meno di questa e senza la gattina squamata che tanto vorrei

…smentire tutti quelli che mi dicono “sono sicuro/a che andrà tutto bene.” Cosa avete da essere sicuri, cosa avete avuto fin qui da essere sicuri, com’è che è pieno di gente sicura di cose sulle quali non ha alcun controllo io vorrei proprio saperlo. Anche se hanno avuto ragione fino a ora non vuol dire che vada così in eterno, lo sapete? Ecco, sapevatelo.

 

La buona scuola

Qualche tempo fa al Virgilio (il mio ex liceo) la polizia è entrata, si è portata via quattro studenti e ne ha arrestato uno: forse spacciava, forse aveva una canna, forse era uno studente, forse no.

Al di là di tutto (tutto che non ho la minima intenzione di trattare) più leggo articoli e botta e risposta su questa faccenda più penso che in generale, su tutti i fronti, la scuola ha alzato le mani: i bambini delle elementari si picchiano o prendono in giro i bambini “diversi” (per un motivo o per un altro)? Sono i genitori che devono educarli. Gli stessi nanerottoli scrivono troppo grosso troppo storto? C’è “l’esperto” che fa una diagnosi e somministra la brava terapia fatta di rinforzini per le risposte corrette. I ragazzi più grandi si passano le canne (o le pasticche, dipende dalla scuola) in cortile? Si chiama la polizia. A questo punto c’è da chiedersi effettivamente DI COSA si occupi la scuola, a parte gli invalsi e le date della prima guerra mondiale…e la risposta io la so. E non vi piacerà.

Quando arrivi in una scuola superiore di periferia, in una zona notoriamente “difficile” hai la fortuna di vedere un meccanismo che a dispetto della scarsità di fondi e mezzi della scuola in questione è lucidissimo e funzionale. E’ lo stesso meccanismo presente in altre realtà ma se nelle zone più “fortunate” o nelle scuole per i più piccoli riesce a sfuggire alla vista perché non è così spudorato nelle scuole degli sfigati si vede benissimo. La scuola del 2000, in Italia, è uno strumento chirurgico con uno scopo: la selezione di classe.

La diagnosi, tendenzialmente, è una: “non scolarizzati, non scolarizzabili”. Si tratta di ragazzi e ragazze che fanno casino, che vengono da famiglie sfasciate, composte da delinquenti o da persone con pochi mezzi (in tutti i sensi), che si mettono a spacciare, che rispondono male agli insegnanti, che non studiano e non si comprano i libri (né le penne, tanto per capirci). Questi sono i soggetti che, secondo un caro vicepreside che ho avuto il piacere di incontrare, “devono essere eliminati”. Come si eliminano? Si comincia consigliando ai genitori di far cambiare scuola all’alunno/a: ho parlato con una serie di ragazze e ragazzi che mi dicevano di essere stati bocciati allo psicopedagogico o al linguistico e di essersi poi iscritti all’istituto tecnico. Vi sembra normale? Non lo è o meglio lo è se consideriamo la scelta della scuola come una scelta del tutto trascurabile, che non deve tener conto dei desideri dell’adolescente, figuriamoci poi dei suoi sogni per il futuro. Ecco, i sogni sul futuro: faccio una fatica bestiale a trovarli, per lo più quello che mi viene detto, quando chiedo di “sparare alto” è: “vorrei fare la professoressa/l’avvocato/il tatuatore/il medico/il calciatore MA NON E’ POSSIBILE” e quando chiedo perché non è possibile 9 volte su 10 la risposta è una scrollata di spalle o un ancor più lapidario “mi ha visto?”. COME ci si arriva a questa risposta? I professori consigliano ai genitori NON di far seguire il figlio da uno psicologo e/o da qualcuno che lo aiuti nello studio ma di iscriverlo in una scuola dove si studia MENO. E voi direte “sarà contento l’adolescente fancazzista di studiare meno!” Certo. E’ contento. E mentre è contento si rende conto del suo essere irrilevante e incapace, un inetto che ha da essere felice del suo studiare poco e del suo frequentare una scuola di merda.

Ecco. Sappiate che mentre noi laureati ci diciamo tanto spesso che laurearsi non è servito a niente perché non abbiamo trovato il lavoro che volevamo i ragazzetti delle scuole sfigate credono al fatto che se studi hai più possibilità di scegliere un lavoro migliore. Ci credono e consapevolmente (o meglio, caricati di una falsa consapevolezza altrui) si fanno da parte.

Ci sono genitori che, forse subodorando la fregatura, non fanno cambiare scuola ai loro figli. A quel punto si tira una leva diversa e quello che si fa è provocare sapientemente adolescenti che hanno poco controllo di sé (qualità già di per sé non proprio abbondante a quest’età) finché non scattano e nel momento in cui questo succede parte la sospensione. Una, due, tre, quattro e in men che non si dica sei arrivato a superare il numero massimo di giorni d’assenza e la bocciatura è assicurata: il ragazzo o la ragazza si ritrovano in una classe composta di studenti più giovani, perdono il legame (già difficile, visti i tipetti in questione) che stavano instaurando con i compagni precedenti, sono fin da subito sorvegliati speciali (poi ti ci voglio vedere a non essere paranoico), non sentono di avere particolari motivi per venire a scuola o seguire le lezioni e si ricomincia da capo, in un rimpallo di scuola in scuola, di classe in classe che ha un solo obiettivo: far arrivare l’adolescente a 16 anni che così SE NE VA.

Vi sembra che io stia esagerando? Non è così. Pensate che io abbia ragione ma che non ci sia la messa in atto volontaria di una logica così spietata? VI SBAGLIATE. Ci sono senz’altro scuole virtuose, nessuno lo nega, e professori che fanno del loro lavoro una missione da educatori (e ne ho incontrati alcuni che si sbattono come uova in condizioni allucinanti) ma io ricordo quanto mi sentissi protetta dal mio status di alunna e se guardo la scuola di adesso, dalle elementari alle superiori, vedo una gigantesca decespugliatrice che taglia rami ancora verdi ripetendo come un disco rotto “non sta alla scuola occuparsi di questo, non sta alla scuola occuparsi di questo”.

Ottime capacità diagnostiche.

E’ tornata a casa con la diagnosi in tasca, incazzata come una iena: incazzata con la dottoressa, che ha appiccicato un bollino sul suo bambino e fornito una lunga lista di accorgimenti pratici da mettere in atto in classe (accorgimenti che faranno sentire suo figlio un idiota, visto che il QI è da cartella “medio-alto”), incazzata con la maestra che le ha detto di portare il bambino a fare queste indagini (“ah ma io adesso gli cambio scuola”), incazzata con il padre del bambino, che se non fosse quello che è COL CAVOLO che il ragazzino avrebbe problemi e, in ultimo, incazzata con la babysitter: che vantaggio c’è ad avere una babysitter che fa la psicologa se non ti dice cosa non va in tuo figlio? Anzi, no, dirtelo magari te l’ha pure detto e ha fatto male, invece di dire cose LE SISTEMASSE. E adesso, che dovrebbe chiamarla per dirle che non c’è bisogno che vada a prendere il bambino, preferisce fare altro. Poi magari la avverte, eh, ma tipo 15 minuti prima.

Sono tornata a casa con la diagnosi in testa, per nulla sorpresa e incazzata pure io: l’avevo detto di evitare le fabbriche di questi nuovi disturbi che vanno per la maggiore e umiliano bambini e genitori senza offrire vere soluzioni. L’avevo detto che il problema era l’ansia e che potevo offrire (senza falsa modestia) i professionisti migliori sulla piazza. Lo sapevo che prima o poi questo momento sarebbe arrivato. E se lei sapesse QUANTA fatica ho fatto a fare “solo” (poi il cavolo “solo”, non è nemmeno del tutto vero) la babysitter, quanta attenzione ci ho messo. Io lo so. E allora perché cavolo mi sento in colpa lo stesso?