Stavo mangiando un’arancia rossa in treno e pensavo: “Perché non c’è modo di sbucciare un’arancia senza fare un casino?”. Mentre mi concentravo sui movimenti delle mie dita e sul profumo che stava investendo sia me sia la mia anziana e curiosissima vicina di posto (che non fa altro che guardare cosa io stia scrivendo: CIAO SIGNO’) pensavo, spacca che ti rispacca spicchi, “mi sembra di mettere le mani in una ferita aperta e non mi dispiace affatto”. E poi mi è venuto in mente che le mani della mia migliore amica sapevano sempre di mandarini, in autunno.
Le mani della mia amica sono mani da violinista, con le unghie corte e quest’aria decisa da “adesso ti pigio giù e ti faccio vedere io e me ne sbatto se mignolo e anulare dovrebbero in teoria muoversi sempre insieme”. Ricordo la bizzarria del polpastrello che finisce piatto e la sua faccia quando suona, perché l’ho vista tante e tante volte… e di rado ho guardato la mia. Credo che l’immagine che per me meglio si associa a quando suonavo sia quella della mia gatta che si avvicina piano piano, piega la testa e… mi morde la caviglia. Ecco, potendolo fare l’avrei imitata volentieri, mi sarei mordicchiata il tendine d’Achille ogni volta che mettevo l’archetto sul violino.
Perché?
Una cosa che in me non è mai cambiata è questa abitudine di scegliere un obiettivo e poi mettermi sulla strada giusta per ottenerlo: anni fa, con un anticipo degno di genitori new yorkesi fissati con l’Ivy League, decisi che volevo andare in una certa scuola media milanese dove, per entrare, era necessario superare un test d’ingresso con lo strumento. In casa mia c’era sempre stato un pianoforte ma da qualche anno i miei avevano deciso che un letto a due piazze fosse preferibile a una francesissima piazza e mezza e il pianoforte…se n’era andato. Che idea. Io comunque volevo suonare quello e con la comprensione per il prossimo mio che mi è propria mi sono ACCOLLATA tantissimo. Non c’è stato verso. E allora, al colmo della mia frustrazione di settenne, ho deciso di sfoderare le mie incredibili conoscenze (apprese da Topolino) e ammutolire tutti trillando “e allora suonerò un altro strumento a tastiera, il violino!”. Bel colpo.
Bel colpo perché alla faccia di tutta la supposta intelligenza che volevo mettere in mostra COME SI FA a dimenticare che hai uno zio violinista, dio santo, e che quindi trovarti un’insegnante di violino sarà una questione non di giorni ma di secondi?
E così, ho cominciato. La mia insegnante aveva delle dita nodosissime, tremila nipoti uno più figo dell’altro (anche se uno era senza mignolo del piede perché un vetro rotto gliel’aveva tranciato di netto) e mi ha insegnato una regola d’oro: prima di ogni saggio, mentre io volevo morire, sparire, rimpicciolire e quant’altro lei mi diceva “bisogna vergognarsi solo quando si fa qualcosa di male”. Sorvoliamo sul fatto che secondo me io ESATTAMENTE quello mi stavo apprestando a fare.
Alle medie arrivò questa prof con i tailleur rosa shocking e i bottoni d’oro. Il mio compagno di strumento ancora la odia, io ricordo principalmente i bottoni e le ore di lezione che facevo da sola. Ho passato i tre anni delle medie a suonare costantemente visto che lui spariva e a me toccava coprirlo (la ragazza di lui si chiama Viola e mi fa piacere pensare che sia una sorta di ringraziamento per tutte le volte in cui gli ho salvato il culo) e la Sforza (la prof) stava lì a dirmi “facciamo i concorsi”. TE LI FAI TE I CONCORSI. Così poi altro che vergogna, mi tocca espiare questo peccato con una libbra di carne.
Va bene. Poi ci siamo trasferiti a Roma. E appena toccato il suolo romano il violino è finito nell’armadio. Era il violino del nonno, non so se fosse andato in Svizzera o in Russia o fosse sempre rimasto a casa (“perché gli ebrei suonano sempre il violino? Perché non si può scappare sulle montagne con un pianoforte sulle spalle”) ma in un caso o nell’altro ha concluso la sua carriera nascosto tra i miei vestiti da escursione.
E niente, stavo pensando che la mia migliore amica è una violinista e io no ma che quello che mi piacerebbe avere sono le dita che in autunno sanno sempre di mandarino.